Quel dolce ri(t)mare delle traversine

di Andrea Saviano

Dicembre.

Un altro dicembre.

E nebbia.

Tanta nebbia.

Un mantello grigio che quel giorno l'avvolgeva con il suo impalpabile freddo umido.

Il tipico clima autunnale del corso di quel piccolo fiume chiamato “il grande fiume” dagli italiani.

Un'umidità sottile che le s'insinuava dentro i tessuti, fino a raggiungere la pelle e, attraverso i pori, penetrarle fin dentro le ossa, toccandole il cuore.

Questo era il gelatinoso e tetro grigiore padano che le aveva, troppo spesso, strappato tutti i sogni di ragazza, le illusioni del grande amore, la fiducia nei cosiddetti “buoni sentimenti”.

Si stava avvicinando Natale e lei, come ogni anno, stava andando in depressione, sentendo dentro di sé un certo vuoto che, inevitabilmente, si stava trasformando in una cavità che, dilatandosi, la stava divorando, inghiottendola dall'interno.

Non era solo il Natale - o meglio il “vero” senso del Natale - ma quel clima falso fatto solo d'apparenza che partiva dagli inizi di Novembre, aveva il suo picco il giorno della vigilia e poi si protraeva fino al Capodanno, per esaurirsi solo e finalmente dopo l'Epifania.

Come odiava questo periodo!

Quel fingere d'essere tutti più buoni. Quei gesti “caritatevoli” di dare l'elemosina ad un mistificatore che recita a volte la parte dello sciancato, altre volte quello della ragazza madre, altre ancora quelle del povero orfanello.

Quel prorompere di musichette idiote, tutte uguali, tutte scampanellanti, come se in tutte le parti del mondo fossero caratterizzate da coltri di neve e slitte trainate da renne.

Quel dover essere felici e contenti a tutti i costi. Sorridere a tutti. Salutare tutti, anche gli sconosciuti!

Lei però era diversa. Le sensazioni e gli stati d'animo non le si potevano creare a comando e, poiché non c'era la fede a darle il senso d'avvento di questo particolare periodo, quel che le restava della parola Natale era solo l'aspetto tragico di falsità e ipocrisia.

John Lennon avrebbe descritto tutto ciò che stava accadendo in quei giorni come una speranza descrivibile da un imperativo: immagina!

Per lei si trattava della semplice illusione di un mondo migliore che non esiste, di un peggiore che è lì nella quotidianità e che poi in quel clima si espande dal cuore al proprio animo fino ad esplodere nel cervello a ribadire che il bilancio di quest'anno - vero e tangibile - è stato tragico: morti, violenza, inganni. La politica sempre uguale a se stessa, che sia prima, seconda o ennesima repubblica. La destra come la sinistra. I disonesti a sperperare e gli onesti a pagare per i loro sprechi.

Detto ciò, era chiaro che di scrivere letterine o cartoline d'auguri a qualcuno, non se ne parlava nemmeno. Dopo tutto lei non ne avrebbe ricevute!

Stava tornando a casa. Nessun amorevole marito. Nessuna chiassosa prole. Al suo ritorno da quella giornata di lavoro, come ogni sera, a farle compagnia, ci sarebbero state solo le sue due gattine: Palla e Lulù.

Non che fosse una povera orfanella senza famiglia, ma questo suo continuo stato depressivo l'aveva portata a litigare persino con il padre, anche perché, dopo la morte della madre, il rapporto con il genitore era divenuto sempre più conflittuale, pieno solo d'incomprensioni spacciate per voglia d'indipendenza.

S'era così convinta che soluzione fosse andare a vivere per conto proprio che, per quel desiderio d'autosufficienza, di una vita per conto suo, aveva accettato il primo impiego disponibile.

Questo le aveva dato il coraggio d'andarsene. D'abbandonare il nido dov'era nata e cresciuta.

Lasciatasi dietro le spalle la casa di suo padre, era andata ad abitare in un mini-appartamento arredato. Qui condivideva esistenza e pensieri con le due micie.

Trasferirsi e troncare così l'unico rapporto umano stabile che avesse avuto non le aveva fatto certamente bene. Difatti, era sprofondata nella peggiore delle solitudini, quella che trascina le persone alla disperazione e al pessimismo.

Un sentiero perfetto per chi voglia rendersi infelice, che permette di stare ben lontani da ogni pensiero sui sentimenti e di svilire indistintamente il valore delle persone, fino al punto da ritenere inutile qualsiasi occasione per incontrale. Tutto questo e la condotta che n'era seguita, le aveva permesso di collezionare un'invidiabile ininterrotta serie di delusioni brucianti.

Ovviamente non si poneva il quesito su chi mai potesse gradire la compagnia d'un'isterica. Non poteva essere colpa sua, nel modo più assoluto.

C'era qualcosa di incredibilmente sbagliato nel modo, qualcosa che portava chiunque lei avvicinasse a cospirarle contro. Non si trattava di un sospetto, ma di una certezza.

Spesso le era capitato di sentire qualcuno che rideva dietro le sue spalle e, quando s'era voltata per controllare chi fosse, questi l'aveva fissata con uno sguardo chiaramente colpevole. Altrettanto spesso s'era sentita osservata, critica, giudicata. Al lavoro, per strada, nei mezzi di trasporto, insomma ovunque andasse gli occhi di tutti parevano essere inevitabilmente diretti su di lei.

Per questo motivo aveva riempito la casa di scorte di derrate alimentari. Perché, se fosse rimasta senza zucchero, di sicuro i condomini avrebbero mentito piuttosto che prestargliene un po'. Soprattutto quella pettegola del terzo piano, che parlava male di tutti e quindi, a maggior ragione, parlava male anche di lei.

Premesso questo, quale fosse la sua opinione degli uomini, non era difficile da intuire.

“Uomini che mascalzoni!” era decisamente troppo poco.

Forse era stata per questo che i “migliori” li aveva persi tutti. Difficile per qualsiasi persona digerire preconcetti come: falso, ipocrita, bugiardo.

Le si leggeva perfettamente in fronte la frase “preferirei mi dicessi semplicemente che mi vuoi scopare invece di vederti fingere delle galanterie nei miei confronti”.

Se alcuni di costoro fossero partiti con la sola - balzana - idea di approfondire una conoscenza o far nascere una semplice amicizia, lei avrebbe provveduto subito a ricondurli sulla retta via... quella della fuga a gambe levate!

Insomma, lei apparteneva a quella categoria di donne che facevano agli uomini una colpa l'essere semplicemente tali. Sospetto = condanna, senza condizionale, né prova d'appello o indulto.

Se ancora non s'era capito che tipo di donna fosse, basti sapere che chiunque fosse stato di genere maschile, non avrebbe avuto la minima possibilità di farle cambiare idea.

Adamo aveva peccato in quella direzione, voltando le spalle ad Eva di fronte al giudizio di Dio, e non v'era alcuna possibilità per quella dannata specie di redimersi, nemmeno morendo in croce per poi risorgere dopo tre giorni.

“Uomini, falsi dal primo all'ultimo!”

* * *

Lasciando da parte il passato e tornando al presente, come ogni mattina si stava dirigendo verso la stazione dei treni e da lì si sarebbe recata, con il solito convoglio regionale, al paesino dove lavorava.

Sul manto candido della neve erano ancora evidenti i segni dei faticosi passi che aveva dovuto fare per coprire il tragitto da casa alla stazione.

Qualcuno li avrebbe potuti descrivere come un allegro e coreografico insieme punteggiato d'impronte che aveva violato la coltre ancora fresca ed immacolata della neve caduta durante la notte precedente.

Quel qualcuno di certo non aveva mai provato in vita sua a camminare nella neve in un giorno di nebbia.

Di certo era un freddissimo inverno, ma nulla a confronto del gelo che albergava nel cuore di quella ragazza di nome Silvia. La nuvoletta che il suo alito disegnava fuoriuscendo dalla bocca era, forse, l'unica cosa che lei avesse a che spartire con il calore umano. Usciva sottile per poi addensarsi in piccole e indistinte nuvolette che poi si condensavano davanti al volto appannandole gli occhiali, rendendole così ancora più indistinta ed irreale la percezione della realtà.

Tra sciarpa, berretto e piumino, ben poco della sua femminilità poteva trapelare. Nell'insieme era più simile ad un pupazzo di neve variopinto che ad un essere umano.

Il tempo di far svanire l'appannamento e Silvia era già all'interno della stazione alla ricerca d'un po' di tepore. Mentre, abbracciata a se stessa, attendeva con ansia il sopraggiungere del locomotore, arrivò improvvisamente il fischio del treno in avvicinamento. Un suono così acuto da risultare molesto.

Una marea di persone, simili a zombie, sbucò dagli angoli più disparati della stazione e cominciò a muoversi lentamente in direzione della banchina, per accingersi a salire a bordo di quel convoglio locale. In breve si trasformò da insieme disperso di singoli a vera e propria calca umana.

Come si ritrovò all'interno della carrozza, un calore improvviso la investì in pieno viso, facendola boccheggiare. Lo sapeva solo Iddio, quanto odiasse prendere quel treno!

Giorno dopo giorno, mattino dopo mattino, solo per recarsi in uno sperduto paesino di campagna ad insegnare ai pochi bimbi ancora rimasti. Una condanna che, a fine giornata, si rinnovava nel dover riprendere il medesimo treno per il tragitto di ritorno.

Come già accennato, Silvia aveva accettato quel posto di maestra giusto per poter guadagnare qualche soldo e così potersi liberare di quel fardello che era ormai divenuto il suo vivere nella casa paterna. Tuttavia, in realtà, lei non aveva mai amato particolarmente quel lavoro, né amava particolarmente i bambini. Anzi, a dire tutta la verità, non li sopportava affatto.

Tutta quella gioia di vivere insieme a quell'allegria senza un reale motivo erano un approccio alla vita particolarmente irritante per chi, come lei, riteneva la vita solo una prigionia della carne alla quale solo la morte avrebbe potuto portar rimedio.

Ora, nonostante fosse così nauseata dalla vita, non aveva mai trovato il coraggio di farla finita e, sebbene fosse ancora giovane, non era mai riusciva a trovare la forza di cambiare o perlomeno di reagire. Le sarebbe stato sufficiente lasciare quel posto di lavoro per cercarne uno, non tanto migliore, quanto più adatto a lei.

La monotonia della quotidianità le s'era avvolta intorno come il grigio mantello della nebbia di quel giorno e, come avviene a coloro che fissano troppo a lungo la foschia, le aveva intorpidito la mente, rendendola sempre più apatica, sempre più staccata dal mondo reale circostante e dagli esseri umani che la circondavano.

* * *

Le tornò alla mente una frase: "Ti sei rinchiusa in una torre d'avorio!"

Chi aveva pronunciato quella frase, una volta, tanto tempo prima?

Non lo ricordava più, assolutamente.

I volti e i nomi, di chi le era stato accanto, erano oscurati da quella patina che l'oblio tende a stendere su ogni cosa, ogni volta che gli si permette questo accada. Non importava chi glielo avesse detto; in fondo, la totalità degli uomini con cui aveva avuto una relazione, le erano sembrati tutti uguali, tutti fatti della stessa pasta, tutti desiderosi di illuderla e poi di farla a pezzi, neanche fossero stati fabbricati in serie. A che serviva aprire loro il proprio cuore, quando, quello che volevano, era solo portarsela a letto?

Quella della torre d'avorio era un immagine che lei aveva sempre apprezzato. S'era sempre compiaciuta d'essere paragonata ad una simile fortezza, tanto bella, quanto inespugnabile. Il candore della neve fuori dal finestrino le ricordava proprio quel concetto di purezza e fredda indifferenza al mondo esterno.

Quel bianco candore che, sfiorato dalla luce, la rifletteva sotto forma di opalescente splendore, sì... ma in quell'immagine anche quanto ostile gelo! Improvvisamente, per un attimo, questo pensiero le attraversò la mente. Era inutile nasconderselo, sapeva benissimo ormai quale stato di brina regnasse dentro di sé a surgelarle ogni possibile sentimento dentro al cuore.

Sprofondata nel sedile del treno, cominciò a sentire il caldo farsi sempre più soffocante. Pigramente si tolse berretto e sciarpa, sfilandosi anche il piumino, che già aveva slacciato.

Il sonno, che normalmente accompagnava i suoi spostamenti mattutini, quel giorno pareva non tentarla, per cui lei non lasciò che esso l'accogliesse serenamente tra le sue braccia. Non sapendo come ingannare il tempo, nella lunga attesa del viaggio, cominciò a guardarsi intorno, osservando le persone che occupavano i posti vicini al suo. Chissà a cosa pensavano, chissà se sognavano e cosa mai fantasticassero? Chissà!

Nel girare lo sguardo verso il finestrino accanto al suo posto, i suoi occhi incrociarono quelli verdi del ragazzo che le stava di fronte. Per un attimo rimase bloccata ad osservarli, ammaliata dal calore e dalla simpatia che questi emanavano, ma girò prontamente la testa non appena s'accorse che lui stava per accennarle un sorriso. Il ghiaccio che albergava dentro a lei aveva ancora una volta preso il sopravvento.

Si ritrovò a fissare il paesaggio innevato che scorreva fuori dal vetro, ma qualcosa dentro di lei la spingeva a girare nuovamente la testa nella direzione di quel ragazzo, a cercare ancora quei due occhi. Non ricordava altro di quel viso, era rimasta come abbagliata e tutto il resto era sparito.

Guardò con la coda dell'occhio nella sua direzione e vide che stava leggendo. Lentamente ruotò la testa verso di lui, in modo da osservarlo, senza farsi notare. Attraente… o almeno, era quello che lei avrebbe definito un ragazzo carino: capelli castani di media lunghezza, lineamenti regolari, un accenno di baffi e pizzetto, lunghe ciglia che ombreggiavano i meravigliosi occhi verdi... e belle mani, lunghe e affusolate, come quelle di un pittore e che ora, invece di un pennello, reggevano un libro. Quel giovane non sembrava interessato a lei o, perlomeno, non aveva l'aria di quelli che puntano gli occhi addosso ad una ragazza nella sola attesa d'incrociarne lo sguardo.

In lei salì prepotente la curiosità di scoprire cosa stesse leggendo; non vedendo riferimenti sull'intestazione o nel piè di pagina, iniziò lentamente a leggere il testo... scorrendo parola per parola, a costituire e ricostruire le azioni e i pensieri compiuti dell'autore.


J. - Mio buon signore, vogliate scusarmi: ancor ch'io sia tenuto al mio dovere di prestarvi la più piena obbedienza, non mi ritengo tuttavia tenuto a far cosa da cui perfin gli schiavi sono esentati... Dirvi i miei pensieri? Poniamo ch'essi siano bassi e falsi: qual è il palazzo dove qualche volta non s'introducono creature turpi? Qual petto è così puro che non vi tenga udienza di giustizia una qualche supposizione immonda sedendo a fianco a fianco con le meditazioni più legittime? -

O. - Jago, tu trami ai danni d'un amico se, sapendo che ha ricevuto un torto, fai il suo orecchio estraneo ai tuoi pensieri. -

J. - No, no, vi supplico... Forse m'inganno nei miei sospetti; ché, ve lo confesso, è una peste di questo mio carattere andar spiando le altrui malefatte; e non di rado la mia gelosia mi fa dar corpo a colpe inesistenti. Che la vostra saggezza tuttavia non voglia tener conto dei pensieri d'uno che pensa sempre così male; né vogliate crearvi alcun tormento delle mie vaghe e strambe osservazioni. Non gioverebbe né alla vostra quiete, né al vostro bene, né sarebbe onesto, dignitoso e saggio da mia parte farvi conoscere quel che penso. -

O. - Che intendi dire? -

J. - Mio caro signore, il buon nome nell'uomo e nella donna è il più prezioso gioiello nell'anima. Chi mi ruba la borsa, ruba soldi; è qualche cosa e nulla; erano miei, ed ora son di chi me li ha rubati, come furono prima d'altri mille... ma chi mi porta via il mio buon nome, mi ruba cosa che, senza arricchirlo, fa di me veramente un miserabile. -

O. - Perdio, voglio sapere quel che pensi! -

J. - Non ci riuscirete, nemmeno a spremervi in mano il mio cuore; né io lo voglio, finché è in mia custodia. -

O. - Ah! -

J. - Guardatevi bene, mio signore dal cader preda della gelosia: egl'è il mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Vive felice l'uomo che, cornuto e consapevole del suo destino, più non ama colei che lo tradisce; ma quali istanti d'inferno deve contar colui che adora.. e dubita... e sospetta... e si strugge pur d'amore! -


Parole forti, intense... vere... chi mi porta via il mio buon nome, mi ruba cosa che, senza arricchirlo, fa di me veramente un miserabile... questa frase le risuonava particolarmente nella sua mente, quasi un eco lontano di tutte quelle voci, di tutti quei volti, di tutti quegli uomini che l'avevano avuta, portandosi via, ogni volta, qualcosa di lei, al punto d'averla completamente svuotata di ogni sentimento.

CONTINUA